Santiago Xanica, 4 giugno 2011
La festa della libertà a Xanica
Finalmente un giorno di festa. Sono anni che aspettiamo questo momento e le vittorie sono così rare nello scontro quotidiano con l’esistente che vale la pena celebrarle alle grande. Nel Messico delle comunità contadine, poi, nessuno si lascierebbe sfuggire una occasione così ghiotta per zompettare in allegria al ritmo della salsa, della cumbia e della musica ranchera.
L’entrata al villaggio di Santiago Xanica è decorata con un arco di palme dalle quali pendono come frutti carnevaleschi decine di palloncini colorati. In alto svetta, stirato e battuto da raffiche di vento, uno striscione che recita: “Benvenuti a Santiago Xanica, festa della libertà”. Dietro l’arco decine di abitanti del paesino, indigeni zapotechi delle montagne del sud di Oaxaca, aspettano pazientemente. Sfoggiano i loro vestiti migliori, come la domenica a messa: gonne scure, capelli laccati, camicette e jeans stirati al sole. I bambini scorazzano numerosi fra le loro gambe alzando nuvolette di polvere.
Arriva, sotto il sole rovente di mezzogiorno, la carovana degli invitati. Una commissione di compagni all’avanguardia segnala l’avvistamento dei furgoni e delle macchine sparando in aria tre mortaretti. Dalla carovana motorizzata, che serpeggia per le montagne verdissime lungo l’unico cammino sterrato, rispondono con un altro mortaretto che esplode alto nel cielo. Un onda d’eccitazione attraversa la piccola folla di paesani, ognuno si colloca più vicino possibile all’arco, come conquistandosi un posto in prima fila nell’imminente inizio della festa tanto agognata.
Sei anni aspettando di goderci questa emozione. Dal 15 gennaio 2005, quando la polizia e l’esercito attaccarono Santiago Xanica con l’idea di annichilire il locale Comitato per la Difesa dei Diritti Indigeni (CODEDI), invadendo il villaggio. Entrarono nelle case e nelle capanne, rubando i pochi averi dei contadini, defecando sui tavoli e orinando sui vestiti. “Puttane indigene” insultarono e toccarono le donne. Puntarono alla testa dei bambini i loro R15. La triste e brutale routine di ogni esercito impiegato in operazioni contro la popolazione civile. Una violenza terribilmente identica che riduce a mera differenza paesaggistica gli scenari di guerra. Il resto del copione è lo stesso.
Quel giorno, mattoni in mano, la gente tentò di resistere, come nel lontano 1952. Raccontano gli anziani del villaggio che in quell’anno, per impedire la privatizzazione delle loro terre, i guerrieri zapotechi affrontarono l’esercito e poi si ritirano nelle inaccessibili e ripide montagne circostanti. Allora il saldo fu di vari morti, raccontano, ammucchiati nel fossato all’entrata del paese e lasciati in pasto agli avvoltoi e ai cani. Chi poteva andare a recuperare i corpi se l’esercito li usava come trappola per scovare gli abitanti nascosti?
Nel gennaio del 2005 invece riuscirono a portarsi via Abraham Ramirez Vasquez, uno dei fondatori del CODEDI, dopo avergli sparato a bruciapelo a una gamba. Con lui arrestarono anche i giovani fratelli Juventino e Noel Garcia Cruz. Picchiarono e torturarono un altro compagno che li stava trasportando all’ospedale, minacciarono il medico e l’infermiera dell’ambulanza che eroicamente non consegnarono il ferito. Però, fra una vicissitudine e l’altra, Abraham finì in fondo a una cella con
l’accusa di omicidio, visto che a un chilometro e mezzo dal luogo della sua detenzione fu trovato il cadavere di un poliziotto. Juventino e Noel furono condannati come complici.
Abraham, Juventino e Noel furono i primi prigionieri politici dell’appena eletto governatore di Oaxaca, Ulises Ruiz Ortiz, il tiranno che ordinò la feroce repressione contro la APPO nel 2006, responsabile dell’assassinio di decine di compagni e compagne durante i sei anni del mandato e che riempì le carceri con centinaia di dissidenti.
Però il dolore oggi rimane nello spicchio più recondito del cuore, perchè finalmente Abraham è con noi, insieme a Juventino e Noel, nel suo villaggio, fra la moglie Graciela e i loro quattro figli, maschietti bellissimi. Oggi sorridiamo, facce al sole, mentre dalla carovana motorizzata scendono i compagni e le compagne indigene di OIDHO (Organizzazioni dei Diritti Umani a Oaxaca), i comunisti del CODEP (Comitato di Difesa del Popolo), gli anarchici e le anarchiche del CAMA (Collettivo Autonomo
Magonista) e di VOCAL (Voci Oaxacachegne Costruendo Autonomia e Libertà) ed infine altra gente sparsa ed un pugno di europei, fra cui la nostra delegazione della PIRATA (Piattaforma Internazionalista per la Resistenza e l’Autogestione Tessendo Autonomia).
Avanziamo in corteo per la ripida salita, fin sotto l’arco. Forte riecheggia lo slogan di sempre: PRESOS POLITICOS LIBERTAD. Abraham emozionatissimo riceve la prima delegazione dei fratelli indigeni dell’OIDHO e poi tutti insieme, donne, bambini, zapotechi ed europei, marciamo per le strettissime vie di pietra e terra del paesino. Felicissimi, increduli e allo stesso
tempo coscienti che questa vittoria l’abbiamo costruita con tanta fatica e con lo sforzo d’ognuno. Sit-in a Oaxaca, a Città del Messico, a Roma, in Olanda, in Spagna, in Svizzera, volantinaggi, presidi permanenti, scioperi della fame. Tanta rabbia e tante divisioni, incomprensioni. Tanta pazienza. Mentre Abraham in carcere resisteva, denunciava e rifiutava ogni dialogo con il governo presieduto dal tiranno Ulises Ruiz Ortiz.
Centocinquanta persone sfilando in corteo a Xanica, paesino di mille abitanti, danno la sensazione di una tenera moltitudine. Passando per la piazza principale, quasi come a sfidare il gruppo duro degli indigeni filo governativi che vivono nel villaggio stesso e oggi ridotti a minoranza, i giovani cominciano a gridare: “Come no! Come si! S’e’ fottuto il PRI!”, riferendosi all’infame e mafioso partito nazional popolare. Poi un gigantesco: “Quando il popolo si solleverà per il pane, la libertà e la terra, tremeranno i potenti dalla costa alla montagna!”
Sul lato dell’antica chiesa di Xanica, uno striscione di una quindicina di metri ci emoziona. Vi sono cucite, bianco su verde, le romantiche e combattive parole dell’anarchico messicano che più influenzò la Rivoluzione del 1910, Ricardo Flores Magon:
“Mentre loro contavano i dollari, io perdevo il tempo contando le stelle. Io volevo fare un uomo di ogni animale umano e loro, più pratici, hanno fatto un animale di ogni uomo. Tuttavia, preferisco essere un sognatore che un uomo pratico”
Poi un tendone, un altro striscione variopinto, con stencil e graffiti, danno il benvenuto alla Festa delle Libertà di questo popolo dignitoso. Una tavolata, il microfono e la parola a staffetta fra tutte le organizzazioni che hanno reso possibile la liberazione di Abraham, nonostante i 40 anni per omicidio che pendevano sulla sua testa. Parole forti, emotive. Ringraziamenti, citazioni ai fratelli zapatisti e riconoscimenti alla tenacia di Abraham.
Prende il microfono in mano anche Cristobal, cucciolo d’uomo, 13 anni vissuti in fretta visitando il padre fra un penitenziario e l’altro. Un’infanzia forgiata nella povertà ma anche nella formidabile esperienza insurrezionale dell’APPO e della Comune di Oaxaca del 2006. I muscoli del collo si tendono, lo sguardo si fa serissimo sui circa duecento ascoltatori. La postura, il tono della voce e i movimenti non tradiscono nessuna insicurezza. Nel vederlo, proviamo un ammirazione che arriva quasi allo sconcerto: troppa maturità per un bambino.
Parla, dunque, Cristobal: “Compagni e compagne, la vittoria e la liberazione di mio padre non l’abbiamo ottenuta a braccia incrociate, abbiamo lottato (…) e dobbiamo continuare ad essere uniti ed organizzati, perchè come dice il comandante Che Guevara, non esiste esercito che possa frenare un popolo in armi”. E chiude recitando una poesia scritta dal padre negli anni in cella.
Una poesia è anche quella che dedica Abraham, cogliendo tutti di sorpresa, a sua moglie, Chela. Abraham infatti ringrazia tutti e tutte, ribadendo la necessità di continuare a lottare per lalibertà di tuttie tutte, a tessere alleanze e annunciando l’impegno per progetti di maggiore profondità che preparino l’autonomia reale di Santiago Xanica. Poi però comincia a parlare di un passero rosso e nero che veniva a visitarlo sulla finestrella lontana della cella nel carcere di massima sicurezza di Miahuatlan… L’atmosfera si fa vibrante e un po’ struggente. Abraham, in versi, racconta e descrive l’anelo di libertà che gli inspira questo piccolo essere con le ali. Con forza e con dignità gli sussurra di volare fino alla casetta umile di sua moglie Chela per dirgli, semplicemente, ti amo.
Francamente rimaniamo colpiti in maniera straordinaria dalle parole di Abraham, compagno indubbiamente militante ma che non ha rinunciato in un evento politico come questo a sottolineare l’umanità e l’amore che legano gli esseri umani. Non pochi ci ritroviamo con il viso rigato dalle lacrime. Chela manda in frantumi il solito sorriso impassibile e sbotta in sighiozzi. La felicità che si vive è umida, profonda e feconda, come la stagione delle pioggie che viene.
Facciamo la nostra parte, leggiamo i saluti dalla Francia, dall’Italia, dalla Svizzera, dal Chiapas, nominando uno per uno tutti/e quelli/e che sono presenti attraverso noi, compagni e compagne che sono passati di qui negli anni. Ogni volta che andiamo a Xanica ci chiedono come stanno, quando ritornano, che stanno facendo laggiù in quella terra chiamata Europa, per molti un concetto confuso sinonimo di qualcosa che sta lontano, molto lontano.
Ricordiamo – non solo noi – che ci sono altri prigionieri politici da liberare e un mondo da cambiare, ossia che abbiamo solo chiuso una fase della lotta per rilanciarla verso altri cento obiettivi. Leggiamo quindi anche una lettera dei prigionieri politici del Chiapas, scritta per l’occasione dal collettivo dei detenuti organizzati nella Voz del Amate.
Infine, trionfa la tradizione nel più profondo stile messicano: due vacche da mangiare, una bomboniera tipo prima comunione a tutti gli invitati (un sacchetto di caffè locale con serigrafate le immagini di Magon e Zapata) e un gruppo musicale un po’ trash su un palco esageratamente grande, invitando al ballo finale. Decine di gambette scure saltellano al ritmo della duranguense; si nota una spruzzata di facce rosate sorridenti in un mare di volti moreni e felici. Situazioni grottesche, tenere e simpatiche si prolungano nella notte, sotto il cielo stellato di Xanica.
Sotto le stesse stelle che contava l’anarchico Magon, mentre preparava la rivoluzione.
Brillanti, alte, inafferrabili. A volte.
Le stesse stelle che contiamo anche noi, sognatori persistenti, preparando un altro grande cambiamento in questo Messico rovente.