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“Buon compleanno, Adán”. Nell’Università della Terra, inizia la fine di un festival che non finisce

CIDECI

San Cristóbal de las Casas, Chiapas. 2 gennaio 2015.
da Collettivo Radio Zapatista

Poco prima di mezzogiorno sono iniziati i due giorni di incontri che metteranno fine al Festival Mondiale delle Resistenze e Ribellioni contro il capitalismo. Di nuovo gli studenti di Ayotzinapa in prima fila, faccia a faccia con le loro famiglie e i loro amici.

Un migliaio di persone riempiono l’auditorio principale del centro di formazione autonomo CIDECI-Universidad de la Tierra. I media indipendenti si sono organizzati all’interno di una biblioteca azzurra per coprire tutto l’evento: video, audio, interviste, testi, anche tradotti in varie lingue. Si può seguire la trasmissione nei saloni della struttura.

All’interno dell’auditorio c’è una cabina per la traduzione simultanea in lingue diverse, mesoamericane ed europee. Fa caldo qui a San Cristóbal de Las Casas. Vengono forniti dati sulla partecipazione di questi giorni: 1300 delegate e delegati del Congreso Nacional Indígena (CNI), appartenenti a 28 popoli e provenienti da 20 stati della Repubblica messicana; 2904 integranti della Sexta (2168 messicani e 736 internazionali di 42 paesi).

La prima a parlare per i familiari dei ragazzi scomparsi è Berta Nava, madre di Julio César Ramírez Nava, che invita i partecipanti a buttare via il governo “che ci fa tanto male”. Con la voce rotta dal pianto ricorda aneddoti familiari, e accusa l’esecutivo di tenere i ragazzi sequestrati.

Mario Cruz è zio di Benjamín Ascencio Cruz, scomparso. La famiglia parla náhuatl, il ragazzo è entrato nella scuola normale rurale per “rinforzare il suo vocabolario”, per conoscere meglio la propria lingua. Dice che il governo colpevolizza la delinquenza organizzata per il sequestro dei giovani, ma “secondo noi è il governo la delinquenza organizzata”.

Bernabé Araján è padre di Adán Abraján de la Cruz. Racconta che il figlio si doveva sposare lo scorso 20 dicembre, che ha una fidanzata e due figli, un maschio di sette anni e una bambina di due, che ancora non sa cosa è successo al padre. Poi gli si rompe la voce ricordando che “oggi è il compleanno di mio figlio” e che andrebbe festeggiato. Secondo Don Bernabé il dolore che vive il paese non è solo di Guerrero, ma di tutto il Messico. “Saremo noi a fare giustizia visto che non lo fa il governo”, assicura.

Óscar García Hernández è fratello di Abel García Hernández. Uscì per andare a scuola e “non lo hanno più visto. “Mia madre non è venuta perché non parla spagnolo, solo mixteco”, spiega. Dice che avrebbe voluto diventare soldato da grande, ma dopo quello che è successo a sua fratello non vuole più, “non voglio fare il militare che fa sparire le persone”. Racconta che un altro fratello non parla con sua madre da undici anni, e che la donna “non sopporta più tanto dolore”.

Fra le voci dei famigliari di Ayotzinapa appare, via telefono, quella di Mario Luna, un indigeno yaqui imprigionato per difendere l’acqua nel suo territorio, nello stato di Sonora. Parla dal carcere in cui si trova, assicurando che continua a lottare con l’EZLN e il CNI che non mollano, e alla Sexta che è “mostra di forza e vitalità”. Con voce chiara promette che “stiamo dove stiamo, continueremo a governarci in un modo differente”, perché “siamo sempre più persone”.

Lambertino Cruz di Guerrero parla brevemente, dice di non saper parlare, ma le sue parole lo contraddicono. A nome di tutta la famiglia di Ayotzinapa ringrazia la solidarietà che hanno ricevuto e di cui hanno ancora bisogno per trovare i loro figli, perché “ce li ha il governo”.
Lo scorso 14 dicembre la Polizia Federale ha ferito Lambertino Cruz durante una marcia, aggredito a calci, che è sopravvissuto solo perché un poliziotto ha chiesto a un suo collega di non continuare.

Omar García parla a nome degli studenti della normale rurale. Racconta cosa gli ha detto il subcomandante dell’EZLN Moisés nel momento in cui la delegazione di Ayotzinapa ha lasciato il Caracol di Oventic, e gli studenti gli hanno detto di volere l’autonomia nelle loro scuole. “Se non lo vedo, non ci credo”, ha detto il subcomandante zapatista.

Fuori dall’auditorio, nei confortanti giardini del CIDECI e fra il caffè caldo e il pane fresco, si ascolta “sono Alexander Mora Venancio”, ripetuto da varie voci di uomini e di donne. All’interno, inizia la lettura maratonica dei documenti approvati nei precedenti incontri del festival, a Xochicuautla, Amilcingo e Monclova. Dentro e fuori, fra chi oggi è venuto qui, si avverte un sincero augurio di “buon anno”, e di “buon compleanno, Adán”, per il ragazzo assente.

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